Le sabbie di Marte
5
«Un’ora fa avevamo un solo passeggero» disse il dottor Scott mentre passava attraverso il compartimento stagno, stringendosi amorosamente al petto la lunga cassetta metallica. «E adesso ne abbiamo diversi miliardi.»
«Chissà come avranno sopportato il viaggio» disse Gibson.
«A quanto pare i termostati erano in perfetta efficienza, quindi dovrebbero stare benone. Li porto subito nelle culture che ho già preparato, dove spero che vivranno tranquilli e felici finché non saremo su Marte, perché li rimpinzerò da scoppiare.»
«Cosa succederà adesso a quel poveretto?» chiese Gibson al capitano Norden, indicando il missile.
«Ne ricupereremo il meccanismo di controllo e di guida e ne molleremo la carcassa nello spazio. Sarebbe un peccato consumare propellente per portare fin su Marte quel guscio inutile. Perciò, finché non riprenderemo l’accelerazione, avremo una nostra piccola luna personale.»
«Proprio come il cane nel racconto di Giulio Verne.»
«Quale? Quello intitolato Dalla Terra alla Luna? Non l’ho mai letto. Per dire la verità, mi ci sono provato una volta, ma non sono riuscito a continuare. Questo è il guaio di tutte le vecchie favole del buon tempo andato… non c’è niente che sia più morto dei racconti avveniristici di ieri.»
Gibson si sentì in dovere di difendere la sua professione.
«Dunque ritieni che la letteratura cosiddetta fantascientifica non potrà mai avere un valore duraturo?»
«Temo di no. Guarda che cosa è successo fino al sessanta, diciamo anche fino al settanta. A quell’epoca si scrivevano ancora romanzi intorno al primo viaggio sulla Luna. Oggi però sono illeggibili. Una volta raggiunta la Luna, per qualche anno ancora si scrisse intorno a Venere e a Marte. Ma oggi anche quei romanzi non si leggono più, se non per farci sopra matte risate. Può darsi che i pianeti esterni forniscano ancora un discreto investimento per un’altra generazione: ma le frottole interplanetarie care ai nostri nonni hanno avuto la loro definitiva sepoltura alla fine del settanta.»
«Tuttavia il tema del volo spaziale è oggi più popolare che mai.»
«Sì, ma non si tratta più di scrivere romanzi scientifico-avveniristici. O sono fatti, cronaca giornalistica, come quella che stai facendo tu adesso, oppure sono opere di pura fantasia. E infatti la maggior parte sono favole, nient’altro che favole, buone per incantare i bambini, e basta!»
«Contesto la tua argomentazione su due punti» ribatté Gibson. «Prima di tutto il pubblico, una gran parte almeno, legge ancora oggi le frottole di Wells, anche se sono vecchie di un secolo. E per passare dal sublime al ridicolo, leggono ancora persino le mie opere giovanili, Polvere Marziana per esempio, anche se ormai i tempi le hanno abbondantemente superate.»
«Wells faceva della letteratura sul serio. Le creazioni della fantasia pura si leggono nonostante le previsioni fatalmente errate, ma non a causa di queste.»
Seguì una breve pausa. Gibson si chiese se il suo interlocutore si stesse preparando ad attaccare il suo secondo punto. Infine Norden riprese: «Quando hai scritto Polvere Marziana?»
«Nel settantatré o nel settantaquattro.»
«Non sapevo che fosse un’opera tanto vecchia. Ma questo spiega in parte la cosa. I viaggi interplanetari stavano per iniziare proprio allora, e tutti lo sapevano. Tu ti eri già fatto un nome con alcuni lavori letterari, e Polvere Marziana s’infilò molto opportunamente nella corrente del momento.»
Gibson sospirò, poco convinto. Poi scoppiò in una sonora risata.
«Si può conoscere il motivo di questa tua improvvisa allegria?» chiese Norden.
«Riflettevo sulla nostra conversazione. Mi stavo chiedendo che cosa avrebbe pensato Wells se avesse potuto immaginare che un giorno due terricoli avrebbero discusso le sue opere a metà strada fra Marte e la Terra.»
«Non esagerare adesso» fu la risposta di Norden. «Non siamo che a un terzo di strada, per il momento!»
La mezzanotte era passata da un pezzo quando Gibson si svegliò all’improvviso da un sonno senza sogni. Qualcosa l’aveva disturbato, un boato sordo che gli sembrò provenire da un’esplosione lontana, dai visceri dell’astronave. Si rizzò a sedere nel buio, irrigidendosi contro le larghe fasce elastiche che lo tenevano fermo al letto. Dallo specchio-finestrino gli giunse solo un luccichio di stelle, poiché la sua cabina si trovava sul lato notturno della nave. Rimase in ascolto, le labbra semiaperte, trattenendo il respiro per cogliere il minimo rumore.
Molti rumori echeggiavano per l’Ares, la notte, poiché l’astronave era viva, e il silenzio avrebbe significato per lei e per tutti coloro che ci vivevano la morte e il nulla, e quei rumori Gibson li conosceva tutti, ormai. Era meravigliosamente rassicurante il sospiro continuo, regolare delle pompe dell’aria che insufflavano gli alisei artificiali, creati dall’uomo, per quel minuscolo pianeta.
Ancora semiaddormentato, si affacciò sull’uscio della cabina e per qualche minuto rimase in ascolto nel corridoio. Tutto era perfettamente normale, e lui era l’unico sveglio a bordo.
Si era già rimesso a letto quando lo assalì un pensiero improvviso. Il rumore era stato poi così lontano? La sua era stata soltanto una prima impressione, e il rumore avrebbe anche potuto essere molto più vicino. Ma era stanco e non ci pensò più. Gibson nutriva una fiducia completa, addirittura commovente, nella perfetta strumentazione dell’astronave. Se davvero fosse successo qualcosa, gli allarmi automatici avrebbero svegliato tutti. Erano stati collaudati parecchie volte nel corso del viaggio, ed erano talmente assordanti da svegliare anche un morto. Quindi poteva riaddormentarsi tranquillamente, sicuro che la nave vegliava su di lui.
Gibson aveva perfettamente ragione, anche se era destinato a non saperlo mai. Il mattino seguente, del resto, aveva già dimenticato ogni cosa.
Norden si avvicinò tossicchiando nervosamente.
«Senti un po’, Martin» disse il capitano, «ti ricordi che non mi lasciavi in pace perché volevi provare una tuta spaziale?»
«Certo. Ma mi hai sempre risposto che era severamente proibito dai regolamenti.»
Il Comandante parve imbarazzato, cosa alquanto insolita in lui.
«Già, e infatti lo è, in un certo senso. Ma questa volta non si tratta di un viaggio normale, e da un punto di vista tecnico tu non puoi essere definito un passeggero. Credo che dopotutto si possa fare, se t’interessa ancora.»
Gibson ne fu entusiasta. Si era sempre chiesto che effetto facesse indossare una tuta spaziale e starsene in piedi nel nulla, circondati dalle stelle. Non gli venne neppure in mente di chiedere a Norden come mai avesse cambiato idea, cosa di cui Norden gli fu molto grato.
La congiura era andata maturando durante un’intera settimana. Ogni mattina Hilton si recava nella cabina di Norden con i bollettini di navigazione in cui erano riassunti l’andamento della nave durante le ultime ventiquattro ore e il comportamento delle sue molteplici macchine. Di solito non c’era niente d’importante da segnalare, e dopo aver firmato i vari rapporti, Norden li univa al giornale di bordo. Una grana era davvero l’ultima cosa che avrebbe desiderato lassù nello spazio, ma gliene toccò una.
«Senti un po’, Johnnie» disse Hilton una mattina (era il solo a bordo che chiamasse Norden con il nome di battesimo: per gli altri era sempre e soltanto il Comandante) «non ho più dubbi ormai sulla pressione d’aria. La diminuzione si può dire costante. Tra una decina di giorni avremo superato il limite di tolleranza.»
«Questo significa che dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Speravo che fosse possibile resistere fino all’arrivo.»
«Temo invece che non sarà possibile. Naturalmente si tratta di livelli trascurabili: una fuga d’aria anche dieci volte maggiore non sarebbe in realtà pericolosa. Ma quando torneremo sulla Terra dovremo pur consegnare alla commissione per la sicurezza spaziale i nostri rapporti sulla pressione.»