Le sabbie di Marte
«Storie!» protestò Mackay, l’astronomo. «Gli ultimi racconti sono di gran lunga i migliori! Adesso Gibson s’interessa finalmente solo alle cose fondamentali.»
Un tale scoppio d’indignazione da parte del mite scozzese era inconsueto, ma prima che qualcuno potesse controbattere, il capitano Norden riprese: «Se non vi dispiace, non ci siamo raccolti qui per fare i critici letterari. Avremo tempo d’avanzo per questo in seguito. Ci sono un paio di punti che la Società vuole che vi chiarisca prima che si cominci. Il signor Gibson è un personaggio molto importante, un ospite di riguardo, ed è stato invitato a compiere questo viaggio perché possa poi parlarne al ritorno. Non è il solito banale trucco pubblicitario: noi stiamo effettivamente facendo la storia, e il nostro viaggio inaugurale dovrebbe essere esaltato degnamente. Perciò cercate di comportarvi come gentiluomini, almeno per un po’ di tempo: il libro di Gibson si venderà probabilmente con una tiratura di mezzo milione di copie, e la vostra reputazione avvenire può dipendere dal comportamento che terrete nei prossimi tre mesi.»
«Tutto questo mi sa maledettamente di ricatto» disse Bradley.
«Prendetela come vi pare» riprese Norden sorridendo. «Naturalmente spiegherò a Gibson che non potrà aspettarsi il servizio che avremo in seguito, quando a bordo ci saranno camerieri, e cuochi, e chissà quanta altra grazia di Dio.»
«Credete che ci aiuterà a lavare i piatti?» domandò qualcuno.
Ma prima che Norden potesse occuparsi di questo problema, dal quadro di comunicazione venne uno sfrigolio, e una voce cominciò a parlare attraverso la grata del citofono.
«Qui stazione numero uno: pronto Ares? Il vostro passeggero sta arrivando.»
Norden innestò una spina e rispose: «Va bene, lo aspettiamo.»
Martin Gibson si sentiva ancora alquanto euforico per aver superato l’ostacolo maggiore: l’ufficiale medico della stazione spaziale numero uno.
La perdita di gravità nel lasciare la stazione e nel passare sull’Ares entro il minuscolo carrello azionato ad aria compressa non gli aveva dato nessun malessere, ma lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi appena entrato nella cabina del capitano Norden lo fece restare per un attimo col fiato sospeso. Anche quando ogni forza di gravità era scomparsa, ci si ostinava ugualmente a immaginare una direzione in basso, e sembrava naturale supporre che la superficie cui erano uniti tavolo e seggiole fosse il pavimento. Però i presenti sembravano pensarla diversamente, perché due membri dell’equipaggio penzolavano come stalattiti dal soffitto, mentre altri due si riposavano a mezz’aria agli angoli della stanza. Soltanto il capitano manteneva, secondo le concezioni di Gibson, la posizione giusta. A peggiorare le cose, la rapatura a zero dava a quegli uomini, di solito più che presentabili, una espressione vagamente sinistra, cosicché l’intero quadro offriva l’aspetto di una riunione di famiglia al Castello di Dracula.
«Questo» disse il capitano Norden, percorrendo con lo sguardo la cabina da sinistra a destra «è il mio ufficiale di macchina, tenente Hilton. Questo è il dottor Mackay, il nostro ufficiale di rotta… dottore in fisica, non medico, come quest’altro, il dottor Scott. Il tenente Bradley è il nostro specialista in elettronica, e Jimmy Spencer, che vi è venuto incontro all’uscita dal compartimento stagno, è la nostra riserva, e spera di diventare comandante d’astronave, quando sarà un po’ cresciuto.»
Gibson fissò il piccolo gruppo con una certa sorpresa. Erano così pochi… cinque uomini e un ragazzo! La sua faccia dovette tradire il suo pensiero perché il capitano Norden rise.
«Non siamo in molti, vero?» disse. «Ma non dimenticate che questa nave è pressoché automatica e d’altronde nello spazio non succede mai niente. Quando inizieremo il servizio passeggeri regolare l’equipaggio sarà di trenta uomini.»
Gibson fissò con attenzione quei sei che sarebbero stati i suoi unici compagni nei tre mesi successivi. Il primo impulso (non si fidava mai dei primi impulsi ma se li annotava con cura) fu di sorpresa per il loro aspetto tanto comune, se si lasciavano da parte particolari trascurabili come la loro posizione e la temporanea calvizie.
A un cenno che Gibson non avvertì, gli altri si congedarono lanciandosi con precisione e senza sforzo attraverso il passaggio aperto. Il capitano Norden si rimise a sedere e offrì a Gibson una sigaretta. Lo scrittore l’accettò un po’ incerto.
«Si può fumare?» chiese. «Non c’è pericolo, fumando, di sprecare ossigeno?»
«Succederebbe un ammutinamento se dovessi proibire il fumo per tre mesi consecutivi» disse Norden ridendo. «D’altronde il consumo di ossigeno è trascurabile.»
Gibson pensò che il capitano Norden non si adattava affatto al quadro che lui si era immaginato. Il Comandante di un transatlantico spaziale, secondo la migliore o perlomeno la più popolare tradizione letteraria, avrebbe dovuto essere un veterano coi capelli brizzolati e l’occhio acuto, che avesse passato metà della propria esistenza nell’etere e potesse navigare attraverso il sistema solare a fiuto.
Invece il comandante dell’Ares era certamente sotto i quaranta, e avrebbe potuto benissimo venire scambiato per un dirigente d’industria.
«Dunque, non siete mai stato nello spazio prima d’ora?» chiese Norden, fissando il suo passeggero.
«No, purtroppo. Ho tentato varie volte di salire sulla Luna, ma se non si hanno ragioni di affari è assolutamente impossibile. È un vero peccato che i viaggi spaziali siano ancora così tremendamente cari.»
Norden sorrise e deviò il discorso.
«Qui a bordo dell’astronave, tutto si chiude quando è notte. Ci pensano gli strumenti a fare tutto mentre noi dormiamo e così non siamo costretti a un continuo servizio di guardia e di osservazione. Ecco uno dei motivi che permette l’impiego di pochi uomini. In questo viaggio, poiché di spazio ce n’è finché se ne vuole, abbiamo ciascuno la nostra cabina separata. La vostra è una normale cabina per passeggeri: la sola che sia in ordine, tra l’altro. Spero che vi troverete bene. Il vostro bagaglio è già tutto a bordo? Quanto vi hanno lasciato portare?»
«Un centinaio di chili. È ancora nel compartimento stagno.»
«Cento chili!» Norden non riuscì a nascondere del tutto la sua sorpresa. Quello doveva aver deciso di emigrare per sempre e di portare con sé tutti i beni di famiglia! Norden aveva l’orrore congenito del vero astronauta per l’eccedenza di peso, ed era convintissimo che Gibson si fosse tirato dietro un sacco di roba inutile.
«Vi farò accompagnare nella vostra cabina da Timmy. Per questo viaggio lui sarà il vostro uomo tutto fare: così si guadagna il passaggio e impara qualche nozione di volo spaziale. Quasi tutti cominciano così, impegnandosi nei viaggi lunari durante le vacanze universitarie. Jimmy è un ragazzo molto in gamba. Ha già superato gli esami del second’anno.»
Ormai Gibson si stava abituando anche all’idea che il suo cameriere di cabina fosse un laureando. Segui Jimmy, che sembrava straordinariamente intimidito dalla sua presenza, verso il reparto passeggeri. Scivolavano come fantasmi lungo i corridoi vivamente illuminati che erano stati dotati di un accorgimento molto semplice ma che aveva contribuito largamente a rendere la vita più confortevole a bordo delle astronavi prive di forza di gravitazione. A pochi centimetri da ciascuna parete girava a velocità costante un nastro mobile munito a intervalli regolari di maniglie. Bastava allungare una mano e aggrapparsi alle maniglie per percorrere, senza il minimo sforzo, lunghi tratti. Occorreva soltanto una certa pratica agli incroci, per passare da una fascia all’altra.
La cabina era piccola, ma geniale nella sua impostazione, e arredata con ottimo gusto. Un gioco ingegnoso di luci e le pareti ricoperte di specchi davano l’illusione che fosse molto più spaziosa di quello che era in realtà, e il letto a perno poteva essere ribaltato durante il giorno, per servire da tavolo. Ben poco restava a ricordare la mancanza di gravitazione.